Il numero dei dipendenti a termine cresce di gran lunga di più (in termini assoluti e in percentuale) di quello dei dipendenti a tempo indeterminato. In cifre: nel terzo trimestre 2015 i lavoratori a tempo determinato erano 2 milioni e 562mila, vale a dire 230mila in più rispetto alla fine del 2014; mentre a settembre dell’anno appena passato il numero dei dipendenti stabili (14milioni e 623mila) è cresciuto di appena 100mila unità rispetto a fine 2014. Di più, anche dopo l’entrata in vigore del Jobs Act la quota dei dipendenti a termine è salita di un punto, raggiungendo il massimo storico del 14,6%, mentre dall’inizio del 2015 è scesa di un punto (all’85,4%) la quota degli “stabili”.
Sulla base delle rilevazioni Istat, un bilancio allarmante è stato tratto – nell’ambito del progetto europeo IsiGrowth – da alcuni ricercatori della Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna di Pisa (Dario Guarascio, Valeria Cirillo e Marta Fana, collaboratrice anche di RadioArticolo1, ndr) che parlano esplicitamente, nel loro paper, di “fallimento” del Jobs Act nel creare occupazione permanente. E quel poco, 100mila occupati fissi, grazie al contributo pubblico di 20mila euro per ogni posto in più. Senza contare che da quest’anno gli sgravi sui contributi per le aziende che assumono a tempo indeterminato scenderanno dal 100 al 40%, e con essi, c’è da scommettere, caleranno le assunzioni a tempo indeterminato.
La ricerca, di semplice reperibilità su Internet anche cliccando solo il nome di uno dei tre giovani economisti, coglie alcune contraddizioni gravi nella gestione della politica dell’occupazione da parte del governo. Una su tutte contribuisce a spiegare la crescita dei contratti a termine in opposizione al calo di quelli a tempo indeterminato: appena prima della riforma del lavoro con le assunzioni a tutele crescenti, un decreto del ministro del Lavoro Giuliano Poletti aveva liberalizzato i contratti a tempo determinato. Oggi, tra i giovani sotto i 25 anni, la quota del tempo determinato – contratti per qualche mese, al massimo per un anno – sfiora il 60%.
Ecco perché la secca conclusione (“fallimento” del Jobs Act) del paper dei ricercatori del Sant’Anna. In buona sostanza la lieve ripresa dell’occupazione è fatta, per la maggior parte, di lavoro a tempo. Sui contratti aggiuntivi firmati nel corso dell’anno appena passato, i rapporti attivati meno quelli cessati, solo il 16% è stabile. L’occupazione permanente resta una fola…