L’Italia non ha mai avuto così tanti lavoratori a tempo determinato. Quelli con la data di scadenza, un anno se va bene, qualche volt un mese. A dispetto del Jobs Act, con il nuovo contratto a tutele crescenti. E a dispetto della generosa decontribuzione attiva da gennaio che dovrebbe incentivare le imprese ad assumere in pianta stabile. Perché è vero, come rivendica il premier Matteo Renzi e conferma l’Inps, che le assunzioni a titolo definitivo dall’inizio del 2015 sono aumentate. Ma allo stesso tempo si sono anche impennate le posizioni a termine: nel terzo trimestre dell’anno, certifica l’Istat, sono arrivate a 2 milioni e 560mila, massimo storico. Esplose, ecco il paradosso, soprattutto dopo l’entrata in vigore della riforma del lavoro, come mostra una ricerca appena pubblicata da tre economisti italiani. Tra gennaio e ottobre 2015, sul totale del lavoro dipendente in Italia, l’incidenza del tempo indeterminato è scesa dall’86,4 all’85,4%. Mentre quella del determinato è aumentata dal 13,6 al 14,6%. Altro massimo storico.
La lieve ripresa dell’occupazione registrata finora, insomma, è fatta per la maggior parte di lavoro a tempo. Sui contratti aggiuntivi firmati da inizio anno, i rapporti attivati meno quelli cessati, solo il 16% è stabile. E le 906 mila assunzioni a tutele crescenti che secondo l’Inps hanno goduto degli incentivi voluti dal governo hanno fatto crescere il monte dei lavoratori a tempo indeterminato di appena 100mila unità: un contributo pubblico di 20mila euro per ogni posto fisso in più. La ricerca, condotta nell’ambito del progetto europeo IsiGrowth, parla di esplicito “fallimento” del Jobs Act nel creare occupazione permanente. «Da una parte c’è la congiuntura ancora incerta, che suggerisce alle aziende di non assumere in modo permanente», commenta Dario Guarascio, ricercatore in Economia alla Sant’Anna di Pisa, autore del paper insieme a Valeria Cirillo e Marta Fana. «Dall’altra c’è stato un messaggio contraddittorio del governo, che qualche mese prima della riforma del lavoro, con il decreto Poletti, ha liberalizzato i contratti a tempo determinato».
Misura che ha aiutato le aziende ad assumere, trasfor-mando quel poco di ripresa in occupazione. Senza contare che un contratto da dipendente, seppure a scadenza, è sempre meglio per diritti e tutele di uno dei tanti rapporti autonomi a progetto, spesso finti. Almeno per ora però, nonostante il massiccio investimento di risorse sul contratto a tutele crescenti, la tendenza alla stabilizzazione dei contratti di lavoro si fatica a vedere nei numeri. Di certo non c’è per i più giovani, gli under25, tra cui la quota del tempo determinato sfiora il 60% del totale. E pure tra le persone assunte con il nuovo contratto a tutele crescenti, senza articolo 18, che ricevono in media una retribuzione dell’1,4% inferiore a quella degli assunti del 2014, e con un’incidenza dell’impiego part time, spesso involontario, molto superiore. Dal prossimo anno poi gli sgravi sui contributi per le aziende che assumono a tempo indeterminato diventeranno assai meno generosi, scendendo dal 100 al 40%. Convincerle a allargare l’organico sarà ancora più difficile.
Articolo apparso il 24 dicembre 2015 su www.repubblica.it (tutti i diritti riservati)